cosa è la cultura


 

Come certi temporali estivi, ormai prevedibilmente, la provocazione di qualche mese fa di Alessandro Baricco (“basta finanziamenti pubblici alla cultura alta! Meglio finanziare un buon programma televisivo con il quale si può ‘educare’ un numero maggiore di persone”) è passata senza lasciare sostanzialmente traccia: un po’ di rami spezzati, foglie cadute che hanno tappato qualche tombino, un po’ di grandine ma tutto è tornato alla normalità dopo poche ore, tanto che nessuno ne conserva ricordo e soprattutto niente è cambiato. Cioè restano intonsi i problemi che c’erano prima relativamente a questo campo fondamentale della attività umana.

Come tutte le provocazioni, anche quella di Baricco sulla spesa pubblica in cultura, conteneva verità e semplificazioni, ma il dibattito e i suoi esiti a me paiono oggi ben miseri. Chiunque sia intervenuto, anche i suoi detrattori, premetteva sempre che ci sono sprechi da ridurre ed efficienza maggiore possibile per i rivoli (non i fiumi di cui parlava Baricco) di soldi pubblici impiegati nella cultura. Dove l’efficienza starebbe tutta nella quantità di pubblico che si conquista alla musica colta, alla danza o al teatro di regia. Ma qui sta il primo sbaglio: possono essere i soli parametri quantitativi (pubblico e conto economico costi/ricavi) quelli validi per misurare il successo dei prodotti culturali che hanno poco valore di scambio? Evidentemente no, altrimenti non solo non avremmo avuto Schönberg e Webern ma neppure tutta la musica cd. classica (da Bach a Haydn e Mozart), o importanti innovazioni nel campo del teatro, nella danza saremmo sempre al Lago dei cigni e in letteratura non ci muoveremmo da Harry Potter. Il motivo per cui gli enti pubblici devono finanziare la cultura non è solo per ampliare l’accesso, ma per sostenere la libera produzione culturale e la innovazione di linguaggi e contenuti dell’espressione umana. Se questa attività creativa e spesso di rottura con i paradigmi culturali precedenti, affermati e diventati di largo consumo, non fosse sostenuta dall’intervento pubblico e fosse lasciata al solo mercato avremmo soltanto il teatro che può diventare film o musical. La produzione originale e libera in cultura prepara i nuovi paradigmi, ma quando si presenta è sempre incompresa,  avvertita come offensiva per il senso comune: non è così solo per la musica dodecafonica, ma lo fu per l’opera (nel 1600 considerata una stramberia), per la poesia non in rima, per la prospettiva di Masaccio, per Picasso come per Van Gogh. Se dovessimo lasciare il campo al solo mercato, a Firenze non avremmo i Cantieri Goldonetta o la Biblioteca delle Oblate, la stazione di Michelucci o il Gabinetto Vieusseux, ma probabilmente neppure gli Uffizi o la cupola del Brunelleschi. Allora, forse dovremmo tornare a domandarci: cosa è la cultura? Essa è sempre movimento verso il futuro, sperimentazione, ricerca, inquietudine, modo critico di guardare il mondo, girare e cercare il film non ancora girato, voglia di leggere il libro non ancora scritto. La conseguenza purtroppo già oggi reale di ciò che dice Baricco è considerare la cultura ancella dell’economia; un utile investimento privato se dà ritorno d’immagine e un motivato intervento pubblico se produce turismo e fa girare l’economia. Mentre c’è un valore in sé nella cultura, nella sua capacità di dare alternative e migliorare la qualità della vita in una comunità.

Per questo gli enti pubblici hanno il dovere istituzionale di investire risorse pubbliche, dei cittadini, nella cultura: per migliorare la qualità della loro vita! Ma, appunto, devono essere investimenti che lasciano il segno, che costituiscono una politica, non un insieme estemporaneo e magari un po’ frivolo di eventi, epifanie, apparizioni. Per questo, il tema della contemporaneità, così spesso e a ragione evocato a Firenze, ha bisogno di una politica strategica e continuativa, ha bisogno di strutture stabili, di soggetti radicati e di reti di attività che favoriscano quella che a buon titolo può essere considerata la giusta traduzione del termine: la produzione culturale che naturalmente può avvenire anche sul materiale del passato e che, anzi, deve saper mettere in comunicazione passato e futuro con gli strumenti e i linguaggi del presente. Per questa strategia e per questa politica sono importanti gli interventi strutturali come Cantieri Goldonetta, il nuovo teatro del Maggio, i nuovi musei (Bardini, Alinari,) o i musei tradizionali vissuti in modo moderno, la Biblioteca delle Oblate, il nuovo progetto dell’Alfieri, il recupero della Strozzina come spazio espositivo per il contemporaneo, certamente il Meccanotessile, ma anche i teatri dove si mettono in scena nuove produzioni o che si mettono in rete per una offerta integrata (come è avvenuto per l’associazione Firenze dei teatri). Tutto questo necessita di continuità e profondità, risorse, riconoscimento, costanza e pazienza (perché necessariamente gli interventi strutturali non producono immediatamente un ritorno “politico” d’immagine, né l’eccitazione momentanea di grandi folle).  Succede talvolta che rimaniamo abbacinati da tutto ciò che fa spettacolo e scalpore, ma non ci rendiamo conto di quanta cultura si vada producendo giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi, senza che la riconosciamo come tale. Per fare solo un piccolo esempio, sono stati pochi i fiorentini – pure fra quelli che reclamano contemporaneità ad ogni piè sospinto – che nel 2006 abbiano riconosciuto nella presenza di Mtislav Rostropovich nella nostra città per la cittadinanza onoraria e per una master class con giovani musicisti, un grande evento di cultura contemporanea. Così come pochi riconoscono nel premio Ubu che qualche tempo fa è andato alla Compagnia Lombardi-Tiezzi per una produzione – “Gli Uccelli” di Aristofane – nata nella nostra città o ancora la produzione di Stefano Massini “La Gabbia” finalista nel 2006 allo stesso premio,  importanti fatti di cultura contemporanea; ancora, pochi riconoscono di Cantieri Goldonetta un luogo di eccellenza in Italia e in Europa sulle arti contemporanee. Cose non eclatanti, ma che lasciano tracce e che possono darci una idea di cosa sia la cultura contemporanea come una necessità di ogni società viva, cioè – come scriveva Walter Benjamin – “non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, moderna, e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità”.

                                                           Simone Siliani